mercoledì 7 ottobre 2009

La Sala Giochi

C’era un luogo proibito durante la mia adolescenza, un eden che si nascondeva dal traffico cittadino, che era sempre aperto a tutti sin dalle prime ore del mattino. Un paese dei balocchi che alzava la saracinesca praticamente quando il bidello apriva i cancelli di scuola. La sala giochi era per me ed i miei compagni di gioventù un altro livello dell’esistenza, un territorio al quale non importava affatto di appartenere al tempo, allo spazio o alla società esterna. Naturalmente, come tutte le cose esageratamente irresistibili e divertenti, l’ingresso in questo regno dell’arcade ci era strettamente vietato dalla maggior parte dei genitori. A dire il vero, comprendo adesso con più lucidità quali fossero i loro timori, a cominciare dal fatto che alla sala giochi fumavano tutti, e che era quello il posto dove i ragazzini provavano, spesso, la loro prima sigaretta. Senza contare il fatto che, sottobanco, poteva circolare qualcosa di più stupefacente del tabacco. Un altro, comprensibile motivo era che, oltre agli adolescenti stregati dai videogiochi, il luogo era frequentato da gente ben più matura, da perdigiorno che scommettevano soldi al biliardo o al calcio balilla e che, non di rado, non riuscivano a contenere la rissa. Così tu, povero quindicenne alle prese con i funghetti di Mario Bros,ti ritrovavi intrappolato nel bel mezzo di un' esplosione di violenza che aveva ben poco di virtuale. Un ulteriore punto a favore del genitore benpensante era il denaro che spendevamo per l’acquisto incontrollato dei gettoni. Ricordo per esempio che, all’arrivo di un nuovo cabinato con il gioco più in voga del momento, si formava una fila indescrivibile di ragazzini carichi dei crediti necessari per non soccombere al famigerato “Game Over”. Mi tornano in mente quei momenti adrenalinici in cui, prossimo alla morte nella mia avventura video ludica, strillavo al “capo” che stava alla cassa di portarmi in tempo ancora 2000 lire in gettoni. E poi ancora 1000 e ancora 1000, ogni volta che appariva la scritta”Continue”. Era curioso vedere come quel padre di famiglia, in canottiera, zoccoli e con la barba di 3 giorni, corresse prontamente per assistermi, comprendendo l’importanza del suo compito. Comunque, nonostante tutti gli avvertimenti vari, alla fine la sala giochi era, per me ed i miei amici, uno dei punti di ritrovo e di “decompressione” inevitabili. Se ci penso adesso, la magia di quello stanzone psichedelico stava nell’ entrarci all’ora di pranzo, quando le strade erano totalmente deserte, e trovarci senza preavviso il tuo migliore amico, tutto sudato, che smanettava sul joystick con assoluta dedizione. Era poi stranamente comune, in ogni sala giochi della zona, che ci fossero sempre dei piccoletti che giravano spingendo il dito su tutte le gettoniere dei flippers o dei videogames, sperando di trovarci qualche monetina incastrata per farsi una partitina gratis.
L’odore forte del fumo, i mille effetti sonori di giochi diversi che si accavallavano ipnoticamente, palle da biliardo che sbattevano sulle sponde spugnose, giocare al flipper con l’amico “una stecca ciascuno”, il botto della pallina del calcetto balilla che andava in goal, la felicità che iniziava con un “Insert Coin” e poi, senza realmente accorgertene, ti ritrovavi proiettato in un universo di orchi, idraulici, astronavi, gorilla, puzzles, enigmi e combattimenti sfrenati. Era questo il senso di quel luogo nelle nostre vite, questo e niente altro. Ho trascorso più di metà della mia “preparazione per gli Esami di Stato” attaccato al cabinato di un avvincentissimo videogioco di calcio col mio amico Ciccio, che si era trasferito da me per concentrarsi al meglio sullo studio. Del resto, quello era l’anno dei Mondiali di Calcio, nella vita vera, e noi ci eravamo fatti un po’ fuorviare. Ogni volta che aprivamo un libro, uno dei due cominciava a canticchiarne la sigletta di presentazione e così scappavamo subito a procurarci i gettoni. E quegli intensi pomeriggi con il mio amico storico, assorti nell’impresa di vincere una coppa poligonale, rimangono indelebili nella memoria più di qualsiasi altra nozione appresa durante i nostri ultimi istanti al liceo.


Poi ben presto, con l’avvento delle nuove, sempre più potenti consolle casalinghe, le sale giochi vennero quasi completamente disertate e si trasformarono in uno squallido ammasso di macchinette videopoker, frequentate perlopiù da un’utenza di over trentenni dallo sguardo non proprio divertito. Era la fine di un’era importante, anche se ancora non ce ne eravamo accorti. Era la fine della magia.
Mentre scrivo, mi accorgo di quanti anni siano passati dai miei giorni clandestini alla sala giochi dietro l’angolo, in quel paesino siciliano, e mi sembra tutto un sogno dolce e lontano. Adesso la gente gioca a casa, seduta sul divano, e gli amici li trova online. Niente gettoni. Ma questa storia non sta a me raccontarla.