giovedì 24 dicembre 2009

Felice

Un pescatore cammina sul molo del porto, nella solitudine quieta di una mattina invernale. Niente pesce nella rete, stamane, solo onde feroci e vento gelido sul collo.
Così è lì a passeggiare, a pensare, a perdersi in quell’angolino di mondo che conosce così bene. Felice, così si chiama, fuma una sigaretta dietro l’altra e tossisce nel cammino. Tossisce per il fumo, per il freddo, tossisce per farsi sentire.
Lì vicino, su uno yacht, dei turisti consumano una tarda colazione e si stropicciano gli occhi. Parlano una lingua lontana che lo confonde, fatta di suoni che stridono, collidono, che si sovrappongono tra loro come tanti scarabocchi sul muro. Felice si chiede dove questa gente, dai capelli così chiari, abbia trovato quei gamberoni freschi che rallegrano la tavola. Ma non si scoraggia neanche un po’. Guarda le curve di quel mare arrabbiato e sa che domani, o un’altra mattina ancora, quelle acque che lo richiamavano sin da ragazzo saranno generose e riempiranno le reti. E’ così che va, mormora fra sé chiudendosi meglio la giacchetta logora: il mare è un’avventura sempre nuova e mai un mestiere. E’ la sua avventura.
Gli altri pescatori sono già al baretto vicino allo sbarco dei traghetti.Siedono stanchi su quelle panche umide e conversano animatamente. Sono facce scavate dal sole, barbe grigie ed ispide, occhi vivi e guance che si fanno rosse per il vino. Ognuno di loro è un grande attore che gesticola, alza il tono, si appassiona e afferma massime assolute, in quel piccolo teatrino sul molo che stà lì da sempre. E di tanto in tanto guardano fuori le navi, che passano all’infinito. Felice ordina la solita birra e si siede con gli altri, che gli fanno spazio e gridano il suo nome. Poi dà uno sguardo anche lui, fuori verso le onde, e si ricorda di quella bambina che, la mattina, da un aliscafo gli ha fatto ciao con la manina. E per quella bimba, per quel saluto tanto onesto, il vecchio vede un altro giorno davanti a sé.


Tra tante stelle, mondi e pianeti, questa è una giornata nella vita di un piccolo uomo. Un uomo che esiste lì perché quello è il suo posto e perché non potrebbe che vivere così. Felice.

giovedì 26 novembre 2009

Tu

Tu che guardandomi in faccia non dimostri mai dubbi,
che non hai segreti da nascondere.
Tu che hai imparato l’italiano per parlarmi d’amore,
che hai scoperto la mia terra,
il cibo e la sua gente
con la meraviglia di chi vive in una favola.
Tu che mi chiami al telefono
e hai la voce dolce di una bambina,
che mi baci ed io sento la scossa
di due mondi che si sfiorano.
Tu che con quegli occhi grandi sai dire tutto
e piangere
e ridere
ed illuminare il mio cammino.
Tu che guardi la tv in quel pigiama soffice
e le calzette buffe.
Tu che mi prendi per mano, d’estate,
per esplorare i tesori nascosti del mare.
Tu che porti il nostro bimbo dentro di te,
giorno per giorno,
e già lo aiuti a crescere forte e sano.
Tu sei la donna che aspettavo
e che è venuta a cercarmi da molto lontano.
Ti ho presa per mano,
mi hai preso per mano
e siamo ancora qui che camminiamo,
giovani e allegri
come l’inverno che t’ incontrai a Roma.

martedì 3 novembre 2009

3 Novembre

Mi ritrovo ancora una volta a pensare alla mia famiglia, laggiù oltre l’oceano. Mia madre starà cucinando qualcosa di buono, avvolta nella sua vestaglia a scacchi rossi, papà lo vedo seduto in camera da pranzo che guarda la televisione, mangiucchiando salumi e formaggi acquistati alla bottega dietro l’angolo. A qualche isolato da quella casetta in Via Colonnello Bertè, anche mio fratello si starà preparando per la cena con la moglie, dopo un’intensa giornata di lavoro. Ogni cucina di Milazzo emana un buon odore, e tutt’intorno c’è aria di pace.
Qui da me sono ancora le quattro del pomeriggio e, come ogni giorno alla stessa ora, mentre ognuno lì si prepara a dormire, vorrei poter dire alla mia gente che li penso sempre e che non li ho mai dimenticati, che quel mercoledì di Dicembre non sono scappato via senza guardare indietro. Controllo il calendario e un altro mese, un altro anno è passato. Oggi mio padre compie 60 anni ed io lo saluto da molto lontano, in un angolino di tempo rubato agli impegni di questo mondo così diverso.


A volte, appena sveglio, mi sembra di scorgere la spiaggia alle prime ore del mattino, quando i gabbiani si radunano in gruppetti ordinati per osservare le onde. E poi, spinti dal vento, scivolano sull’acqua per un istante carpendo la preda che ancora si dibatte. Vorrei anch’io aver le ali e volare da loro, da tutti, in quella terra che è madre, culla, dolore, conforto e luce di ogni mia giornata. E così direi a piena voce, planando giù verso il giardino di quella casa a me cara: “ Buon compleanno, papà!”

mercoledì 7 ottobre 2009

La Sala Giochi

C’era un luogo proibito durante la mia adolescenza, un eden che si nascondeva dal traffico cittadino, che era sempre aperto a tutti sin dalle prime ore del mattino. Un paese dei balocchi che alzava la saracinesca praticamente quando il bidello apriva i cancelli di scuola. La sala giochi era per me ed i miei compagni di gioventù un altro livello dell’esistenza, un territorio al quale non importava affatto di appartenere al tempo, allo spazio o alla società esterna. Naturalmente, come tutte le cose esageratamente irresistibili e divertenti, l’ingresso in questo regno dell’arcade ci era strettamente vietato dalla maggior parte dei genitori. A dire il vero, comprendo adesso con più lucidità quali fossero i loro timori, a cominciare dal fatto che alla sala giochi fumavano tutti, e che era quello il posto dove i ragazzini provavano, spesso, la loro prima sigaretta. Senza contare il fatto che, sottobanco, poteva circolare qualcosa di più stupefacente del tabacco. Un altro, comprensibile motivo era che, oltre agli adolescenti stregati dai videogiochi, il luogo era frequentato da gente ben più matura, da perdigiorno che scommettevano soldi al biliardo o al calcio balilla e che, non di rado, non riuscivano a contenere la rissa. Così tu, povero quindicenne alle prese con i funghetti di Mario Bros,ti ritrovavi intrappolato nel bel mezzo di un' esplosione di violenza che aveva ben poco di virtuale. Un ulteriore punto a favore del genitore benpensante era il denaro che spendevamo per l’acquisto incontrollato dei gettoni. Ricordo per esempio che, all’arrivo di un nuovo cabinato con il gioco più in voga del momento, si formava una fila indescrivibile di ragazzini carichi dei crediti necessari per non soccombere al famigerato “Game Over”. Mi tornano in mente quei momenti adrenalinici in cui, prossimo alla morte nella mia avventura video ludica, strillavo al “capo” che stava alla cassa di portarmi in tempo ancora 2000 lire in gettoni. E poi ancora 1000 e ancora 1000, ogni volta che appariva la scritta”Continue”. Era curioso vedere come quel padre di famiglia, in canottiera, zoccoli e con la barba di 3 giorni, corresse prontamente per assistermi, comprendendo l’importanza del suo compito. Comunque, nonostante tutti gli avvertimenti vari, alla fine la sala giochi era, per me ed i miei amici, uno dei punti di ritrovo e di “decompressione” inevitabili. Se ci penso adesso, la magia di quello stanzone psichedelico stava nell’ entrarci all’ora di pranzo, quando le strade erano totalmente deserte, e trovarci senza preavviso il tuo migliore amico, tutto sudato, che smanettava sul joystick con assoluta dedizione. Era poi stranamente comune, in ogni sala giochi della zona, che ci fossero sempre dei piccoletti che giravano spingendo il dito su tutte le gettoniere dei flippers o dei videogames, sperando di trovarci qualche monetina incastrata per farsi una partitina gratis.
L’odore forte del fumo, i mille effetti sonori di giochi diversi che si accavallavano ipnoticamente, palle da biliardo che sbattevano sulle sponde spugnose, giocare al flipper con l’amico “una stecca ciascuno”, il botto della pallina del calcetto balilla che andava in goal, la felicità che iniziava con un “Insert Coin” e poi, senza realmente accorgertene, ti ritrovavi proiettato in un universo di orchi, idraulici, astronavi, gorilla, puzzles, enigmi e combattimenti sfrenati. Era questo il senso di quel luogo nelle nostre vite, questo e niente altro. Ho trascorso più di metà della mia “preparazione per gli Esami di Stato” attaccato al cabinato di un avvincentissimo videogioco di calcio col mio amico Ciccio, che si era trasferito da me per concentrarsi al meglio sullo studio. Del resto, quello era l’anno dei Mondiali di Calcio, nella vita vera, e noi ci eravamo fatti un po’ fuorviare. Ogni volta che aprivamo un libro, uno dei due cominciava a canticchiarne la sigletta di presentazione e così scappavamo subito a procurarci i gettoni. E quegli intensi pomeriggi con il mio amico storico, assorti nell’impresa di vincere una coppa poligonale, rimangono indelebili nella memoria più di qualsiasi altra nozione appresa durante i nostri ultimi istanti al liceo.


Poi ben presto, con l’avvento delle nuove, sempre più potenti consolle casalinghe, le sale giochi vennero quasi completamente disertate e si trasformarono in uno squallido ammasso di macchinette videopoker, frequentate perlopiù da un’utenza di over trentenni dallo sguardo non proprio divertito. Era la fine di un’era importante, anche se ancora non ce ne eravamo accorti. Era la fine della magia.
Mentre scrivo, mi accorgo di quanti anni siano passati dai miei giorni clandestini alla sala giochi dietro l’angolo, in quel paesino siciliano, e mi sembra tutto un sogno dolce e lontano. Adesso la gente gioca a casa, seduta sul divano, e gli amici li trova online. Niente gettoni. Ma questa storia non sta a me raccontarla.

martedì 22 settembre 2009

Non Si Sa

Sfugge via, come un soffio di vento invisibile che scuote gli alberi. E non si sa dove vada.
L’amore si perde tra gli altri oggetti smarriti, tra le scarpe dei bimbi e gli ombrelli dei viaggiatori.
Dolcemente. Lasciandoti una lacrima nel cuore scappa via. Dolcemente. E non si sa dove vada. Non si sa.

venerdì 28 agosto 2009

La Beffa

A volte basta poco per scoppiare in una risata ebete al 100%. Ogni volta che guardo questa foto, scattata circa 5 anni fa a Milazzo, quasi mi prendono le convulsioni e comincio a parlare confusamente svariati linguaggi ormai scomparsi da secoli.
Era la fine di una delle nostre serate da scavezzacollo irresponsabili, senza una meta, un destino o un futuro quantomeno visibile. Eravamo, ed in fondo lo siamo ancora, pieni zeppi di quell’idiozia goliardica che si prende gioco anche della vita stessa. Quel dono mitologico che spesso rende le giornate non facili a chi ti sta vicino, che sia una moglie, una fidanzata o un semplice animale domestico. Ebbene, quella notte avevamo appena terminato una delle nostre temibili e avventurose scorribande nella cittadella ignara e dormiente. Quella Ford Fiesta d’annata aveva ben poco di terrestre, si diceva che la carrozzeria fosse stata rocambolescamente forgiata da fulmini e saette e rimodellata dall’incazzatissimo mare in tempesta. Il suo rombo brutale e lo stridere incontrollato delle ruote in curva erano un’espressione diretta della nostra insensata follia. Dietro di noi si stendeva una densa scia di caos, panico e letale gas organico prodotto incessantemente da mio fratello, il nostro esperto di esplosivi. Non ricordo bene a chi fosse venuta l’idea, probabilmente era il parto collettivo delle nostre menti illuminate, ma quella notte decidemmo di andare a trovare il nostro amico che già dormiva da tempo (un amico che adesso, per comodità, chiamerò Massimiliano B ) e di aspettarlo tutti nel portone del suo palazzo.
Con la macchina.
Spalancammo brutalmente le porte dell’entrata e, mediante rozze manovre del bifolco conducente, ci facemmo strada -tra i molteplici scoppi della marmitta- nel cuore del palazzo silente, mentre ognuno di noi si contraeva in spasmi incontrollabili e piangeva dalle troppe risate.
Non mi è chiaro se questo sia solo il mio modo di ricordare l’accaduto, ma sono quasi certo che in quell’istante il tempo avesse rispettosamente rallentato la sua corsa e qualcuno del vicinato avesse suonato la tromba per celebrare l’ardita vittoria. A quel punto eravamo sudatissimi, completamente deliranti, ebbri di gloria e senza più voce, ma ci abbracciavamo lo stesso in slow-motion come tanti omosessuali in scatola.

Al ricordo, i posteri potranno certamente considerarci come dei “cafoni scellerati” o “irrispettosi mitomani”. Ma qualcuno, qualcuno molto più fico, ci chiamerà “leggende”.

domenica 23 agosto 2009

La Sicilia Che Ne Sa

Che ne sa l’Isola che la Sua gente non è mai cambiata, che le loro gioie, guai e tormenti son sempre gli stessi, che niente si muove mai davvero.
Che ne sa della Mafia, dei supermercati, le auto o i motorini. O del ponte sullo Stretto.
Che ne sa delle elezioni, dell’inflazione, dei computer o dei carabinieri. Che ne sa del resto del mondo.
A Lei non importa, a queste cose non ci pensa. Lei conosce solo la roccia, il legno, la terra, l’erba ed il soffio del vento.
Che ne sa la Sicilia delle mattine a scuola, le cene al ristorante, dei pianti per amore o le risate con gli amici. Che ne sa della disoccupazione, della televisione, delle chiese o dei bar.
Lei sa che l’estate la terra brucia e d’inverno si sta freschi. E quando vuole farsi sentire fa parlare il vulcano.
Che ne sa la Sicilia degli orologi, gli scioperi, la musica, i vestiti, delle lotte o dei trionfi della gente.
Forse un giorno, all’improvviso, tutti gli uomini andranno via. E ci saranno più agrumi sui rami degli alberi, niente più rumore e meno nuvole nere a macchiare il Suo cielo.
Ma di questo la Sicilia non si preoccupa davvero. E sta lì tutto il tempo a fare il bagno, beata, tra il Tirreno, lo Ionio ed il Mediterraneo.

giovedì 16 luglio 2009

sabato 20 giugno 2009

Sotto il Tendone del Circo

Sotto il tendone del circo la gente applaudiva, avevano appena annunciato l’arrivo del pagliaccio.
Ma lui non arrivava.
Era in un angolino, a testa bassa, nascosto dalle gabbie delle tigri. E sospirava. Era stanco di sorridere, di aver tutte le luci puntate su di lui. Stanco d’inciampare. All’improvviso quelle scarpe erano troppo lunghe, quel vestito troppo sgargiante, il trucco opprimente.
Il ruggito delle bestie lì davanti suonava come un pianto triste, era il lamento di chi è prigioniero e non riesce a rassegnarsi.
Era scappato di casa a 12 anni per seguire il carrozzone con tutte le sue meraviglie, con gli animali, i pagliacci, i coriandoli, la banda musicale e i riflettori. Adesso di anni ne aveva 52 e al suo paese ci voleva tornare. Chissà se mamma c’era ancora, chissà se l’aveva perdonato. Forse, nel panificio di fronte casa, facevano ancora quelle ciambelle calde da imbottire con la marmellata. E magari qualcuno, tra i compagni di gioco d’un tempo, l’avrebbe riconosciuto ed accolto con un abbraccio.
Così il clown, mentre il pubblico lo chiamava sempre più a gran voce dagli spalti, si alzò da quella panchetta, gettò a terra cappello e parrucca e si avviò convulsamente verso la sua roulotte. Mise la testa sotto il rubinetto e strofinò forte sul viso con un panno, lasciando gocciolare il trucco nel lavandino. Poi, ansiosamente, si guardò allo specchio. E con immenso orrore, con devastante repulsione, comprese. Capì che sotto quella maschera, sotto quella desolante bugia quotidiana, non era rimasto più niente. Non c’era più un volto, forma, espressione o parvenza di uomo. Il circo se l’era mangiata.
Sotto il tendone del circo, quella sera, tutti gli animali rimasero in silenzio. Qualcuno, inginocchiato in un carrozzone, si aggrappava alla foto di un bambino di 12 anni. E nonostante la gente avesse già svuotato da tempo le gradinate, trombe, sassofoni, piatti e tamburi strepitavano ancora in un folle delirio cacofonico. Come a voler coprire un pianto.

venerdì 5 giugno 2009

Saltano

Salta il fanciullo sul prato
rincorrendo l’amico,
salta la punta sul disco
nel grammofono antico.
Saltan le pecore ad una ad una
quando mi voglio addormentare,
salta la terra per aria
alle bombe del militare.
Salta felice nel mare
l’immensa balena,
saltano i pesci in padella
mentre prepari la cena.
Salta nel petto il mio cuore
se ti vedo passare,
salta la pulce sul cucciolo
che si gratta il collare.
Salta l’atleta del circo
e sopra il pubblico vola,
salta la corda la bimba
che si sente un po’ sola.

Di tutti i balzi nel mondo uno è straordinario,
così veloce che ogni volta strabilia:
quando i giorni saltano avanti nel calendario
e mi ritrovo, d’Estate, nella mia Sicilia.

mercoledì 20 maggio 2009

Sempre

Ti aspetterò sempre, come un bimbo che guarda nel cielo cercando un aereo.
E non dormirò mai. Mai.
Questa musica dolce che mi hai lasciato nel cuore mi terrà sveglio tutto il tempo, gentilmente.
E ogni giorno i miei occhi sapranno cercare solo te, ignorando la spiaggia e le grandi onde del mare.
Poi, una notte piena di vento arriverai da molto lontano. Mi porterai un sorriso, il tuo sorriso, e io sarò felice. Più vivo.
Come un bimbo che guardando nel cielo ha trovato un aereo.

giovedì 14 maggio 2009

Golden Fish

Pesce dorato, che solitario scivoli tra le acque scure del lago, so che mi hai perdonato. So che hai già dimenticato quel mattino, quando un amo ti ha strappato via dall’ombra del tuo regno incantato e quel filo, che non riuscivi a spezzare, ti ha tirato su verso qualcosa che ancora non comprendi. Chissà se hai avuto paura mentre lottavi come un guerriero e l’acqua, tutt’intorno, s’increspava in una simmetria perfetta di forza, grazia e dolore. E chissà a cosa pensavi quando, con fatica, finalmente ti ho preso tra le mani e mi hai guardato con quegli occhi pieni d’orgoglio. La nostra battaglia era finita e lo sapevi: stavi solo aspettando, confusamente, che qualcosa accadesse. Facevi un odore intenso di muschio, di fondali torbidi e remoti, di libertà senza confini. Nessuno ti aveva mai visto prima di quel giorno, e mai avrei sperato di osservare così da vicino la tua bellezza.
Eri una creatura prodigiosa della natura, pesce dorato, e alla natura ti ho voluto restituire. Con un guizzo poderoso mi hai salutato e sei sparito via nel nulla, come non fossi mai esistito realmente.
A me rimane soltanto una foto per ricordo e la sensazione, profonda, che non t’incontrerò mai più.

domenica 3 maggio 2009

Marco Tornerà

Ogni giorno mi sveglio con un peso sul cuore, quando apro gli occhi e non trovo il mare. Quando fuori sul marciapiede le persone non parlano la mia lingua ed ogni cosa sembra grigia senza il sole. Così dall’America penso alla mia gente, lontana.
Madre, padre, fratello, amici di tutta una vita, io vi vedo sbiaditi dietro una finestra che non riesco ad aprire. E le ore, i giorni, le settimane, pian piano diventano anni.
Ho lasciato tutto alle spalle, spesso mi sembra anche di aver abbandonato per sempre la giovinezza. E l’unico conforto, consolazione dolceamara, sono i ricordi di un tempo e di un luogo a me cari. Così la primavera, questo inizio di Maggio, mi portano a pensare a quelle mattine quando mia madre preparava i panini con pomodoro e cotoletta, e gli amici suonavano al campanello di casa. Ci trovavamo tutti in Marina con macchine, scooter, radio, zaini e palloni. Poi si partiva per una lunga giornata di pic-nic, giochi, scherzi, corse tra gli ulivi e risate in compagnia. E tra musica, birra e qualche sigaretta, sbocciavano e appassivano amori di un’adolescenza che avrebbe segnato, profondamente, le nostre vite. Ricordo che quelli erano i giorni in cui indossavamo la prima maglietta con le maniche corte, e qualche coraggioso si tuffava a mare per inaugurare la stagione dei bagni. A quel punto l’estate siciliana, il periodo più atteso da ognuno di noi, si faceva sempre più vicina. Finalmente mettevo a punto il motorino, risvegliandolo dal forzato letargo invernale, e guidavo senza pensieri verso il Capo della città, passando dalla strada Panoramica e godendomi ogni istante del percorso. Era una sensazione di felicità semplice e bellissima. Adesso che ci penso non credo che ci sia niente di meglio a cui aspirare.
Oggi, 3 Maggio 2009, sono qui, oltre quest’oceano che mi separa da tutto, e penso alle mie passeggiate solitarie al cimitero di Milazzo, solo per assorbire quel silenzio. Ricordo l’odore pungente dei fiori che appassivano nei vasi e le foto sulle tombe che alimentavano la mia immaginazione. Ogni lapide aveva una storia, nella calura di quei pomeriggi pensierosi, e al mio cammino tutto restava immobile ed eterno, sospeso nell’ immutabilità di quel luogo. Sospeso come le volte che lasciavo casa dopo pranzo, in sella alla mia nuova bici da corsa rossa, e pedalavo verso il porto per guardare le navi da vicino, per sentire l’odore delle onde che carezzavano il molo. Sbirciavo dentro il secchio dei pescatori con curiosità, mentre gli aliscafi tornavano uno ad uno dalle isole, ed il pensiero dei compiti di scuola si faceva sempre più pressante.
A volte passavo ore ed ore alla Croce di Mare, senza che nessuno sapesse che ero lì. Mi perdevo in quell’angolo di mondo, seduto sulla carcassa di una barca o arrampicandomi tra le rocce per contemplare i fondali, attraverso il verde-azzurro di quelle acque trasparenti.
Un pomeriggio estivo dei miei quindici anni, quando la scuola era appena finita, mi ritrovai in spiaggia con gli amici, travolto dall’allegria spensierata della gioventù e pensai –lo giuro- che quel momento nel tempo fosse perfetto. Non avrei mai voluto che niente e nessuno me lo portasse via o ne cambiasse anche una minima parte. E quell’istante, dopo 17 anni, lo puoi trovare ancora sul mio viso.
Perché c’è una sola vita, una sola storia per un uomo. E la mia sta tutta lì.
Apro la porta del mio appartamento a Washington ed esco fuori, portando nel petto queste vecchie emozioni siciliane, che nessuno per strada può davvero capire. Ed in cuor mio so, lo sento, che un giorno tornerò.

mercoledì 15 aprile 2009

Ritorno all'Innocenza

"Return to Innocence" degli Enigma è uno dei video musicali ai quali ero piu' legato. L'ho riscoperto su YouTube recentemente ( http://www.youtube.com/watch?v=-JpJjsHgYHA ) e, dopo tanto tempo, col passare degli anni e l' allontanamento dalla mia terra e dalla sua natura, quel ritorno all'innocenza acquista per me un valore ancora piu' profondo. Sin dalla prima immagine del vecchio che si spegne sul prato, salutato dagli uccellini, di fronte al suo albero di pere e al blu sereno del cielo.

sabato 21 marzo 2009

Una Memoria dal Futuro

L’immagine che vedete qui sopra è un ricordo ancestrale che riaffiora periodicamente nella mia vita, una scheggia di memoria che sale a galla senza preavviso, sin da quel pomeriggio. Quel giorno dei miei otto anni quando mio padre, dopo i compiti, mi portò al cinema con lui. Guardavamo spesso cartoni animati come “Gli Aristogatti”, oppure lungometraggi con Mazinga e Goldrake. Quella volta, invece, davano un film cupo di cui neanche oggi conosco il titolo, nonostante mi sforzi in ogni modo di identificarlo. La trama era probabilmente troppo elaborata perché la potessi capire fino in fondo, ma mi ricordo che c’erano degli uomini che combattevano all’interno di mezzi galleggianti sul mare, claustrofobici e dalla forma molto squadrata. E che poi, improvvisamente, successe qualcosa che sarebbe rimasto con me per sempre: qualcuno, da una spiaggia deserta, gridò un comando rivolto all’oceano ed un’armata di uomini-pesce, lentamente, silenziosamente, cominciò ad uscire dalle acque. Avevo un cuore troppo piccolo per contenere l’emozione di quella sorpresa. E provai la strana, assurda, illogica sensazione che quella fosse una scena che avessi già visto o vissuto, o che perlomeno avesse un significato profondo, un nesso segreto che con il tempo avrei scoperto. Era un misto sensoriale di acqua salata, quiete lontana, distorsione sonora delle profondità, percezione di mondi nascosti sotto la superficie, misteriosità degli abissi.

Qualcosa di molto importante è, è stato o sarà sul fondo del mare, lo sento anche adesso. E come quella sera di tanti anni fa, mentre tornavo a casa per mano di mio padre, mi domando ancora cosa voglia dire quell’emozione così profonda ed inusuale. E se quell’immagine del passato fosse un punto di partenza, o l’arrivo inaspettato e precoce di una rivelazione.

giovedì 12 febbraio 2009

Accadde un Martedi'

Era uno di quei martedì d’inverno freddi, secchi, grigi, non in sintonia. Un martedì come oggi. Perso senza rimedio nella routine che mi annullava, d’impulso abbandonai il lavoro e corsi affannosamente verso casa. Mi ritrovai ad aprire, con sorpresa, ogni armadio, anta o cassetto dell’appartamento. E dall’interno caddero per terra, schiantandosi, parole su parole su parole, come una cascata, un’esplosione inarrestabile, un vortice confuso e rabbioso. Erano parole mai dette, mai pronunciate, mai neanche sussurrate. Le avevo chiuse, sigillate lì. Mai usate per rispetto, compassione, gentilezza o per errore. Adesso erano per terra, dappertutto, inondavano il soggiorno e spingevano sulla porta. In pochi minuti si trovavano già fuori, nel mondo, arrampicandosi sulle auto, i negozi ed i palazzi, facendosi largo tra la gente per strada che le ascoltava e piangeva, rideva, si arrabbiava, si intristiva, si offendeva o ne gioiva. Non riuscii a rendermi conto di cosa stesse succedendo, o se stesse accadendo davvero. Poi, quasi subito, tornò il silenzio. Un silenzio surreale. Pochi notarono che per qualche secondo, quasi impercettibilmente, tutto sembrò rimanere sospeso, come se il tempo cessasse di esistere. Non so ancora cosa avvenne in realtà.
Quel pomeriggio, quel martedì inaspettato, mi sentii come se fossi guarito da un malanno, come se fossi più leggero, più vero. Anche se ormai non avevo più niente d’importante da dire.

venerdì 23 gennaio 2009

Le Scarpe Volanti di Capitan Jet - Capitolo 1

"Alzati, è tardi ! " strillò la mamma scuotendolo un po’. " Alzati, Howard, farai di nuovo tardi a scuola !! " Ma Howard stava ancora sognando, volava spensierato nei cieli di Chissaddove insieme al suo eroe, in fondo la maestra Castlemain poteva anche aspettare...
La mamma dovette afferrarlo per i piedi e trascinarlo giù dal letto fino al corridoio. Poi, quando finalmente il marmocchio trovò la forza e la coordinazione per aprire gli occhi, cominciò ad arrancare stancamente verso il televisore, inciampando più di una volta nei suoi calzini scesi. Ed eccolo già lì in cucina, sommerso dai mille cereali multivitaminici della sua colazione forzata, davanti ad un’altra imperdibile, epica, memorabile ed emozionante avventura del cartone più bello di tutti. " Leggero come una piuma, veloce più del vento, Capitan Jet vola con le sue scarpe d’argento ! " strillò la sigla affascinandolo sempre come la prima volta. E così, anche quella mattina ce l’aveva fatta : niente e nessuno al mondo avrebbe potuto distoglierlo da un evento di simile grandezza. " Scappa... Corri... Attentooo !!! " gridò dalla tavola il ragazzino, impugnando la sua spada interdimensionale improvvisata, a forma di cucchiaio." Si... bravo... così !! " E intanto quello schermo ipnotizzante diventava sempre più un vortice d’azione, di pericoli, combattimenti e acrobazie, adesso Capitan Jet sembrava avesse preso una delle sue coraggiose decisioni, era ormai pronto, stava per... stava per... ZZZOT. La mamma aveva spento la TV. Punto. Niente finale dell’episodio, nessuna vittoria del bene cosmico sul male ancestrale, zero catarsi, solo una corsa disperata per arrivare in tempo alla grigia-noiosa-severa-nonmipiaceneancheunpò scuola. Howard, con il viso ancora vistosamente paralizzato dalla shockante interruzione e neanche il tempo minimo per lamentarsi con efficacia, schizzò via nella sua camera e tirò giù maldestramente i vestiti dall’armadio. Prese poi le scarpe da sotto il letto, le infilò nei piedi tra mille titanici sforzi e.. " Ma un momento... " esclamò quel mancato scolaro, sempre più in ritardo " Un momento... questi non ci sono mai stati sotto il mio letto !" Si chinò di nuovo e prese incuriosito un paio di stivaletti della sua misura. Erano nuovi e lucidissimi, di un giallo che non poteva e non avrebbe mai potuto essere di moda. " Strano, sarà una sorpresa di mamma e papà ! " " Ma se li metto adesso-pensò tra sé- Steve e gli altri mi diranno che ho delle banane ai piedi!" Così li lasciò sul pavimento, salutò di corsa la mamma esibendo lo sguardo di chi non ha ancora perdonato, e trascinò il suo gigantesco zainetto fino alla strada. Fece i consueti due isolati e andò a prendere il povero Ralph che, come al solito, lo stava aspettando da chissà quanto. Ralph viveva dai Perkins, la famiglia più antipatica e irritante di tutto il quartiere, era stato adottato. I suoi veri genitori avevano perso la vita in uno sfortunato incidente d’auto, lo stesso che aveva privato lui dell’uso delle gambe. Howard non aveva mai conosciuto una persona così infelice, per questo cercava sempre di stargli vicino. I due, col tempo, erano diventati grandi amici." Scommetto che oggi ti sei svegliato all’alba ! >> disse Ralph burlandosi dell’amico." Scusa-scusa... mi dispiace ! Hai aspettato molto, vero ? " rispose il nostro protagonista, mortificato per non avere una giustificazione valida." Non fa niente !-esclamò ironicamente guardando la sua sedia a rotelle- Questa carrozzina era arrugginita già da prima... andiamo a scuola !"Proprio in quel momento, una mano robusta ed irsuta aprì minacciosamente la finestra del piano superiore : era papà Perkins. " Non siete ancora a scuola ? Cosa diavolo ci fate nel mio giardino a parlottare, dannati imbecilli smidollati ?" Prese un po’ di fiato e poi emise un boato raccapricciante :
" VIAAAAAAAAAAA!!!!!!!!!!!! "
I due si allontanarono storditi e in tutta fretta, mentre la mamma Perkins aveva cominciato ad imprecare e il cane Perkins ad abbaiare.E così, quel giorno, Howard e Ralph arrivarono giusto in tempo per non essere chiusi fuori dal cancello di quell’odiato edificio, provando la fastidiosa sensazione di chi si getta con tempismo tra le fauci di uno squalo.
TO BE CONTINUED

lunedì 5 gennaio 2009

Marco e lo Zio d’America: L'Incontro a New York

Con lo Zio d’America non c’eravamo mai incontrati di persona. L’avevo scoperto, nei giorni in cui ancora vivevo in Italia, come il milazzese per eccellenza su tanti siti, forum e pubblicazioni. Un’entità astratta che, dalla lontanissima America, assorbiva e vegliava sullo spirito della sua cittadina mai dimenticata.
A mezzogiorno del 19 Dicembre, quando fuori la neve riempiva di bianco la cima dei grattacieli, le strade ed i cappotti della gente, Carmelo è arrivato a prenderci alla Grand Central Station di New York, indossando distintamente una coppola siciliana ed esibendo un sorriso semplice, che dava a me e ai miei familiari un benvenuto sincero, rompendo così ogni indugio, attesa ed interrogativo. Non ci eravamo mai visti prima d’allora, ma sempre stimati reciprocamente ed istintivamente. In particolare, tempo fa, lo Zio d’America mi aveva inviato una copia del suo libro ”Dove il Sole Tramonta a Ponente” e ne ero rimasto abbagliato, immergendomi ed immedesimandomi totalmente in quella sua epopea autobiografica, dove un giovane appena ventenne lascia Milazzo e tutti i suoi affetti per imbarcarsi verso gli Stati Uniti. Ricordo che lo lessi tutto d’un fiato una notte e che poi mi precipitai al computer per ringraziare l’autore con un’e-mail. E come poi scoprii durante quel gelido pomeriggio a New York, appena arrivati a casa di Carmelo, i miei commenti a caldo sulla sua opera erano stati integralmente inclusi in un bell’articolo su “America Oggi”, quotidiano italiano pubblicato negli Stati Uniti. Così, dopo un’occhiata incredula al giornale, del quale me ne aveva gentilmente conservato una copia, mi venne come l’impulso di dare uno sguardo ravvicinato ad una stanza in particolare della sua abitazione, che per qualche ragione brillava di una luce diversa. Era una camera vicina al soggiorno, un luogo tutto intimo e personale fatto di ricordi vivi, foto e quadretti raffiguranti Milazzo e Lipari. Con la televisione accesa che parlava l’italiano della RAI ed al centro il computer dal quale, ogni notte, Carmelo si affaccia verso quel mondo oltre l’oceano, per afferrarne anche solo uno scorcio e mettere il cuore a tacere ancora per un po’. Mi sentivo come se avessi fatto una grande scoperta, o che qualcosa dentro di me fosse stata chiarita. Avevo visto lo Zio d’America dall’altro lato di quel monitor.
La giornata è continuata poi, piacevolmente, con un maestoso pranzo italiano cucinato dalla moglie Michela, della quale spesso lui si lamenta scherzosamente (proprio come faccio io con la mia Christina!). Michela, originaria della Puglia, non ha esitato a confermarci l’ossessione del marito per la terra della sua infanzia, che è sempre nei suoi discorsi, ed in cuor mio sorridevo, sapendo come ci si senta ad averla dovuta abbandonare.
Mentre ormai le strade di fronte erano completamente bianche, a tavola ci si soffermava a ricordare i personaggi storici e attuali del nostro paesino siciliano, a cercare di dare un senso alla politica italiana e ad annaffiare il tutto con un buon caffè.
Carmelo, meglio di un parente, è stato straordinariamente affettuoso con me e la mia famiglia: ci era venuto a prendere alla stazione ferroviaria (40 minuti da dove abita), pagato il viaggio di andata e ritorno e, come se la generosità non fosse stata abbastanza, ci ha regalato dei biglietti per un musical a Broadway. Era amareggiato, tanto da non dormirci la notte, perché la tempesta di neve aveva rovinato i suoi programmi, così non poteva vedere lo show con noi, o mostrarci di persona la sua New York. Ma anche solo quel pomeriggio insieme, tra sguardi, sorrisi e parole importanti, mi è servito a capire quanto quel mio contatto informatico e telefonico fosse davvero un amico in carne ed ossa, qualcuno su cui -come mi ripete lui spesso- potrò contare sempre.
Lo Zio d’America è una persona diversa da quelle che si vedono adesso in giro, il tempo non ha cambiato il suo entusiasmo per la vita e la sua voglia di sognare. E’ un siciliano fiero dagli occhi vivi e buoni, come fossero quelli di un bambino. Un bimbo che osserva quella sua Milazzo dentro una sfera di vetro e la stringe tra le mani come se fosse il suo unico tesoro.
Alla fine della giornata, mentre ci accompagnava a prendere il treno, lui guardava me come se fossi il Carmelo del passato, io guardavo lui come se fosse il Marco del futuro. Cose che non ci siamo mai dette.